Nel 1965 due ladri rapinarono a volto scoperto due banche a Pittsburgh, Pennsylvania. Ripresi dalle telecamere, furono prontamente individuati e arrestati.
Questi due fenomeni si stupirono di essere stati ripresi perché erano convinti di aver reso invisibile alle telecamere il loro volto, dopo esserselo cosparso di succo di limone.
Fu proprio questa notizia che portò un docente della Cornell University, David Dunning e il suo allievo, Justin Kruger a sondare meglio il fenomeno delle distorsioni cognitive.
Un fenomeno che risultò molto più ramificato ed esteso delle strampalate leggende metropolitane condite con succo di limone.
I risultati della ricerca sono stati pubblicati nel 1999 nel saggio “Incompetenti ed inconsapevoli di esserlo: come la difficoltà nel riconoscere la propria incompetenza porta ad autovalutazioni non veritiere” e hanno dato origine a ciò che è noto come “Effetto Dunning – Kruger”.
Un’interessante riflessione sulla pratica dell’Aikido e le distorsioni cognitive legate all’autovalutazione e all’effettiva competenza acquisita è stata fatta qualche anno fa da Enrico Neami a questo link.
La nostra riflessione vuole andare andare un po’ oltre. Partendo da due presupposti:
Primo: ogni persona che decide di iscriversi a un corso di Arti Marziali è spinta da qualche aspettativa. O bisogno (ne parlava Marco Rubatto su Aikime recentemente) più o meno consapevole.
Secondo: viviamo immersi in un mondo in cui si parla tanto di autodeterminazione ma non si riesce a comprendere bene che cosa sia.
Succede quindi che la percezione delle proprie aspettative e dei propri bisogni spinga l’individuo a intraprendere un percorso di una disciplina.
In linea puramente teorica, un percorso psicodinamico, come l’Aikido, sviluppa competenze motorie e tecniche e, attraverso esse, modella il carattere e modifica competenze attitudinali. Tale è lo scopo di una pratica che dal punto di vista fisico è condotta in esercizi a coppie con un continuo scambio di polarità.
In linea pratica, però, si è testimoni di percorsi tutt’altro che lineari.
E’ vero che l’essere umano è qualcosa di estremamente complesso e che per andare da A a B preferisce spesso percorsi tortuosi o pericolose scorciatoie anziché la strada più diretta e sicura.
Oltre a questo, se si aggiunge che spesso spacciamo per autodeterminazione quello che fondamentalmente è fare e dire un po’ quello che vogliamo, allora si creano pericolose distorsioni.
A livello fisico, per esempio, è sufficiente cambiare aria per un po’ e frequentare un altro stile per vedere che la nostra autovalutazione non è così solida. Il nostro compagno non cade come “dovrebbe” o come “vorremmo”; noi non cadiamo come “dovremmo” o come “pensiamo che potremmo”; ci viene il fiatone dopo mezz’ora quando intorno a noi sono tutti belli arzilli…
Solitamente queste esperienze si concludono in frettolosi giudizi. Siccome è troppo duro ammettere che la nostra condizione fisica e tecnica non è così eccelsa come pensavamo, allora si tira su un bel muro e si inizia la lista dei “Sì, però…”.
Beninteso, a volte capita anche di andare in luoghi in cui la nostra condizione fisica e tecnica è superiore rispetto alla media: ciò non toglie che il meccanismo mentale appena descritto non sia applicabile ugualmente.
A livello attitudinale poi, l’incapacità di mettersi in una condizione di una autovalutazione oggettiva, porta a veri e propri disastri.
E’ infatti possibile -e accade più spesso di quanto si pensi- che quello che è un percorso che si fa insieme diventi in realtà un bozzolo di solitudine, in cui l’ego si avvolge e si nutre di abitudini, di ruoli fossilizzati, di interazioni di cui si potrebbe fare la descrizione preventiva con precisione assoluta (“Tizio cade così se gli faccio cosà, Caio lo prendo quando faccio esercizi di armi, Sempronio non lo considero proprio”).
Solitamente sono queste le persone più inclini a definire il percorso marziale come una via per l’autodeterminazione. Per forza: che cosa c’è di più facile di ingannarsi? Di convincersi che fare ciò che vuoi è giusto perché hai la giustificazione di dedicare qualche ora a settimana in un gruppo che, stando zitto, legittima indirettamente questa traiettoria?
Fortunatamente, come si sa, “il corpo non mente mai”. Ed è con il corpo che la nostra espressione tecnica e attitudinale può apparire verso l’esterno. Magari ci abituiamo a non prendere in considerazione i rimandi del nostro corpo. Magari li sottostimiamo. Spesso li sovrastimiamo.
Però sono lì. Che cosa farsene?
E’ importante poter mettere in discussione l’espressione tecnica del nostro movimento. Con un buon istruttore e con il coraggio di affrontare la valutazione di altri buoni istruttori.
Poter vedere, toccare il limite, è un regalo, perché dà un senso alla traiettoria che vogliamo seguire. Sapendo che cosa possiamo o non possiamo permetterci.
Un percorso dunque dove la realtà della condizione fisica possa dare una cornice di realismo allo sviluppo delle competenze non fisiche e a quel lavoro di formazione del carattere e interiore che una disciplina porta con sé.
Viceversa, una strada dove il confronto con un’altra cultura mette a nudo le nostre capacità cognitive, emotive, culturali e valoriali. Mostrandone i pregi e le lacune; quello che ripetiamo come pappagalli e quello che davvero abbiamo interiorizzato.
Praticare diventa davvero un “lucidare lo specchio”, un percorso di conoscenza e di accettazione, di studio e di tentativi di esplorare che cosa c’è oltre i confini dei nostri limiti.
Senza dover inzuppare il keikogi di limone pensando di diventare figli adottivi di Morihei Ueshiba.
Amando ciò che siamo e quindi coltivandolo con cura.
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